Sapete bene quanto amiamo i nostri tappeti, vero? Con il post di oggi capirete che i tappeti berberi sono stati amati da personalità di spicco eclettiche ed eccentriche, da artisti, pittori e architetti di fama mondiale. Insomma, noi siamo un po’ di parte, ma come scoprirete leggendo, questi manufatti rappresentano una forma d’arte e cultura apprezzata da sempre, e con uno stile senza tempo.
Partiamo dicendo qualcosa di “banale”, se vogliamo: nel mondo occidentale i tappeti hanno sempre avuto un ruolo chiave nell’arredamento d’interni, ma sono diventati vere e proprie opere d’arte sotto l’influenza di designer famosi e architetti di fama internazionale. Fin dagli albori dell’architettura moderna, i padri fondatori dell’interior design come lo intendiamo oggi hanno scelto tappeti iconici per arricchire i loro progetti e le loro stesse abitazioni, trasformandoli in elementi distintivi di stile ed eleganza.
Dai capolavori tessili del Bauhaus alle creazioni più contemporanee, i tappeti amati dai designer famosi hanno ridefinito il concetto di decorazione d’interni.
Questo viaggio attraverso le trame e i colori delle creazioni più celebri ci porterà a scoprire come queste opere tessili abbiano segnato la storia del design, lasciando un’impronta indelebile fino ai giorni nostri. E a noi piace moltissimo ricordare che siano proprio i nostri tappeti marocchini ad avere un ruolo da protagonisti in tutta questa splendida storia.
Seguiteci, insomma, in un altro dei nostri lunghissimi post. Per orientarvi rapidamente, sappiate che parleremo di:
- L’Orientalismo: quando il Marocco incantò l’arte moderna
- Il viaggio in Marocco di Eugène Delacroix
- Mariano Fortuny y Marsal: da pittore di guerra a orientalista realista
- Henri Matisse: panorami di Tangeri e sguardi domestici
- Jacques Majorelle: l’arte, la vita a Marrakech, la creazione dei celebri giardini
- Paul Klee e Vassily Kandinsky: l’Africa dei sogni, dei ricordi, dei paesaggi astratti
- Tappeti marocchini e design: l’architettura del XX secolo
- Tappeti famosi: quando Alvar Aalto fece conoscere al mondo i Beni Ourain
- Marcel Breuer e la Sedia Africana
- Charles e Ray Eames, una casa da vivere e amare
- Frank Lloyd Wright e i tappeti della villa più famosa al mondo: la Casa sulla Cascata
- Focus | Donne e Bauhaus, quando la tessitura era l’unica forma di design concessa
- Yves Saint Laurent: atmosfere coloniali e stile moresco
Come sempre, vi ricordiamo che l'uso del termine berbero rappresenta per noi uno strappo alla regola perché come abbiamo spiegato qui preferiamo usare Amazigh, o - più in generale - marocchino. A questo proposito, per chi volesse approfondire tutti i tipi di tappeti c'è un dettagliatissimo post su come si chiamano i tappeti marocchini. |
L’Orientalismo: quando il Marocco incantò l’arte moderna
L’arte occidentale dell’Ottocento e del Novecento ha spesso guardato all’Oriente con occhi sognanti, in cerca di luce, colore, armonie nuove.
Per alcuni artisti, però, il viaggio in Nord Africa non fu solo suggestione esotica, ma una vera e propria rivoluzione interiore e stilistica. Dai diari pieni di dettagli di Delacroix ai tappeti di luce di Klee, dai blu accesi di Majorelle ai tessuti ipnotici di Fortuny, fino ai paesaggi interiori di Kandinsky e ai ritmi cromatici di Matisse: il Marocco e i paesi vicini hanno lasciato un segno profondo nell’arte moderna.
Un viaggio attraverso lo sguardo di questi artisti è anche un viaggio dentro il colore, la materia e l’essenza stessa della pittura.
Siamo certi ne rimarrete affascinati e affascinate anche voi.
Il viaggio in Marocco di Eugène Delacroix
Nel 1832, il pittore francese Eugène Delacroix visitò il Marocco come parte di una missione diplomatica, un viaggio che lasciò un segno profondo nella sua arte, soprattutto nella sua palette cromatica e nella minuziosa attenzione ai dettagli decorativi. Scene di vita quotidiana, abiti tradizionali e tappeti dai motivi complessi divennero elementi ricorrenti nelle sue opere, contribuendo a diffondere l'estetica marocchina in Europa.

Eugène Delacroix "Jewish Wedding in Morocco". Fonte: Wikimedia Commons, immagine di pubblico dominio.
Vado a fare passeggiate che mi danno un piacere infinito, e ho momenti di deliziosa pigrizia in un giardino alle porte della città, sotto l'abbondanza di aranci in fiore e ricoperti di frutti
I suoi diari di viaggio marocchini resi disponibili da Google Arts and Culture sono pieni di racconti, immagini, suggestioni.
Delacroix non cercava il bazar, non anelava a tutti i costi un artificioso “pittoresco”: dipingeva l’autenticità e gli spazi intimi e domestici a cui aveva il privilegio di accedere grazie alle sue amicizie con esponenti di spicco della comunità ebraica di Tangeri.
Nei suoi taccuini annotava scrupolosamente i colori e i tessuti - bianco, rosso, verde velluto, verde chiaro - e disegnava case arabe studiando in modo approfondito l’architettura locale, di cui rappresentava elementi tipici quali piastrelle, porte, finestre e nicchie.
Dal Marocco e da Algeri riportava studi che furono poi riutilizzati in alcuni suoi dipinti, i più famosi dei quali sono "Le nozze ebraiche" in Marocco e "Donne di Algeri".
Insomma, un’esperienza così potente e rivoluzionaria che influenzò tutta la sua espressione artistica successiva.

Eugène Delacroix "A Moroccan Couple on Their Terrace". Cortesia del The Metropolitan Museum of Art metmuseum.org, immagine di pubblico dominio (Met's Open Access policy).
Mariano Fortuny y Marsal, da pittore di guerra a orientalista realista
Ci sono viaggi che, anche se nati sotto una cattiva stella, cambiano la vita. Per Mariano Fortuny y Marsal, il Marocco fu proprio questo.
Nel 1860 Fortuny viene inviato in Africa per documentare la guerra ispano-marocchina. Ma se molti artisti avrebbero ricostruito su tela solo gloriose battaglie e soldati, lui andò ben oltre. Su di lui ebbero la meglio i colori e la luce, i mercati brulicanti, le strade di Tetouan, gli splendidi tessuti e le architetture intricate delle città marocchine.
I suoi quadri non racconteranno la guerra, ma il calore del sole sulle mura bianche, la vivacità dei caftani decorati, il mistero di interni esotici.
Da quel momento, il fascino di ciò che allora era considerato "Oriente" non lo abbandonò più. E anche se la sua vita fu breve, il suo viaggio in Marocco rimase impresso nei suoi dipinti, rendendolo uno dei più straordinari interpreti di un Oriente sognato, ma profondamente vissuto.

Mariano Fortuny "Mujer marroquí". Fonte: Wikimedia Commons, immagine di pubblico dominio.

Mariano Fortuny "The Cafe of the Swallows". Fonte: Wikimedia Commons, immagine di pubblico dominio.
Henri Matisse: panorami di Tangeri e sguardi domestici
Henri Matisse arrivò a Tangeri nel 1912, in un momento di grande incertezza. Aveva appena superato i quarant’anni, era all’apice della sua carriera, ma la morte del padre lo aveva lasciato in una crisi artistica profonda. Sentiva il bisogno di staccarsi dal Fauvismo e di cercare una nuova strada, e il Marocco gli offrì proprio quello che cercava: luce, colore, ritmo. Trascorse due inverni di fila a Tangeri, affascinato dai contrasti di questa città sospesa tra terra e mare, tra il frastuono dei souk e il silenzio degli interni marocchini.
Qui si innamorò dell’arte islamica, degli arabeschi, dei colori saturi che sembravano pulsare di vita propria. L’azzurro, il blu, il turchese lo conquistarono, trasformando la sua pittura. Le forme si fecero più semplici, la luce divenne protagonista assoluta. Gli interni marocchini, con i loro tappeti, le piastrelle geometriche e i giochi di ombre e riflessi, gli insegnarono un nuovo modo di guardare lo spazio. Dopo il soggiorno in Marocco, il verde e il blu diventarono i suoi colori guida, quelli che avrebbero segnato la sua pittura negli anni a venire.
Non dipinse solo i paesaggi di Tangeri, ma anche le atmosfere intime delle stanze marocchine con i loro protagonisti, dove la luce filtrava attraverso tende leggere e ogni oggetto sembrava far parte di una composizione perfetta. Quello che trovò in Marocco non fu solo ispirazione, ma una lezione di essenzialità: l’idea che la bellezza potesse nascere dalla sintesi, da pochi elementi messi in armonia. Una lezione che avrebbe portato con sé per sempre.
Guardate che spettacolo queste sfumature di blu e verde!

Henri Matisse "Zorah sur la terrasse". Fonte: Wikimedia Commons, immagine di pubblico dominio.

Henri Matisse "La Fenêtre à Tanger". Fonte: Wikimedia Commons, immagine di pubblico dominio.
Se siete anche voi affascinati dall’amore di Matisse per il Marocco dovete assolutamente guardare questo video.
Jacques Majorelle: l’arte, la vita a Marrakech, la creazione dei celebri giardini
Se siete stati a Marrakech almeno una volta nella vita – e se non l’avete fatto, ve lo consigliamo caldamente! – avrete sicuramente visitato i meravigliosi Giardini Majorelle.
Oggi sede dei Musée Pierre Bergé des Arts Berbères e Musée Yves Saint Laurent, la loro storia inizia nel 1931, quando il pittore Jacques Majorelle li creò come spazio di ispirazione e rifugio. Nel 1980 Yves Saint Laurent e Pierre Bergé li acquistarono, salvandoli dalla privatizzazione e dalla trasformazione in un hotel, e li aprirono al pubblico. La splendida casa al centro del giardino, inizialmente bottega e abitazione dell’artista, fu progettata dall’architetto parigino Paul Sinoir e mescola, in una strabiliante armonia compositiva, cubismo e stile moresco.

"Studio di Jacque Majorelle nei giardini botanici Jardin Majorelle (Marrakech)" di FriedrichFrisch, licenza CC BY-SA 4.0. Fonte: Wikimedia Commons.
E poi c’è lui, il famosissimo “blu Majorelle”. Prima ancora di Klein, Jacques Majorelle fu uno dei pochissimi artisti a dare il proprio nome a un colore: un blu intenso, vibrante, tra il cobalto e l’oltremare.
Se ve ne siete innamorati, ecco il codice hex #6050dc per riprodurlo sulle pareti di casa vostra!
Questa ricca tonalità vibrante accostabile al cobalto e all’oltremare si ispira alle maioliche smaltate zellige (dall’arabo ﺯﻟﻴﺞ, zullayj, ceramica, piccola pietra levigata) e al blu lapislazzuli usato nella decorazione su legno chiamata zouaq. Lo ritroverete ovunque nei Giardini Majorelle, avvolgendo ogni cosa in un’atmosfera magica.

"Marrakech Majorelle Garden 2011" di Bjørn Christian Tørrissen, licenza CC BY-SA 3.0. Fonte: Wikimedia Commons.
Splendido!
Jacques Majorelle non fu solo un incredibile colorista, ma anche un pittore straordinario. Figlio d’arte – suo padre era Louis Majorelle, celebre designer Liberty e Art Nouveau – si stabilì a Marrakech nel 1919 e rimase stregato dai suoi colori e dalla sua architettura. Dipinse suk, casbah, ksour, immortalando il Marocco con un tratto nitido e quasi fotografico, e disegnò perfino poster pubblicitari per attirare il turismo europeo. Il suo sguardo moderno e profondamente innamorato del Marocco rivive ancora oggi nelle sue opere… e, naturalmente, nel blu che porta il suo nome.

"La casbah di Tinghir" di Narbonne, licenza CC BY-SA 3.0. Fonte: Wikimedia Commons.
Qui trovate un interessante tributo all’artista (una breve brochure in inglese che raccoglie alcune sue opere e la sua storia).
Paul Klee e Vassily Kandinsky: l’Africa dei sogni, dei ricordi, dei paesaggi astratti
Paul Klee visitò il Nord Africa due volte nella sua vita, e quei viaggi gli lasciarono dentro un’impronta indelebile. Sebbene non abbia mai messo piede in Marocco, la sua esperienza in Tunisia nel 1914 e in Egitto nel 1928 trasformò il suo modo di dipingere. Era affascinato dalla luce, dai colori e dalle architetture di quei luoghi, e nei suoi dipinti iniziarono ad apparire forme semplificate, superfici vibranti e tonalità calde, ispirate ai paesaggi nordafricani. A Tunisi, insieme agli artisti August Macke e Louis Moilliet, dipinse opere in cui i contorni delle case, delle moschee e dei vicoli si dissolvono in macchie di colore puro. Fu lì che scrisse la famosa frase: «Il colore e me siamo tutt’uno», segno di una vera e propria rivelazione artistica.

"Hammamet with Its Mosque" di Paul Klee, 1914. Cortesia del Metropolitan Museum of Art, New York. Rilasciata nel pubblico dominio tramite il programma di Open Access. Fonte: Wikimedia Commons.
Il viaggio in Egitto dell’inverno 1928-29 lo spinse ancora oltre. Qui le sue opere iniziarono a somigliare a tappeti di linee e colori, con strisce sovrapposte che costruiscono profondità, come un orizzonte che vibra nel caldo del deserto. Anche se a prima vista sembrano astratte, queste composizioni richiamano il movimento del vento sulla sabbia o il bagliore di un fuoco che brucia nell’aria dorata della sera. Una sintesi perfetta tra forma, colore e atmosfera.

"Fire in the Evening" di Paul Klee, 1929. Riproduzione fotografica fedele di un'opera d'arte bidimensionale di pubblico dominio. Cortesia del Museum of Modern Art (MoMA), New York. Fonte: Wikimedia Commons.
Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno.
Anche Vassily Kandinsky scoprì il Nord Africa, ma qualche anno prima, tra il 1904 e il 1905, quando ancora cercava la sua strada tra gli influssi impressionisti.
Visitò la Tunisia e rimase colpito dai contrasti forti, dalle decorazioni geometriche, dai colori delle maioliche e delle moschee.
Non era ancora l’astrattista che tutti conosciamo: il suo stile era in divenire, ma già nei suoi dipinti di quel periodo si intravede qualcosa di nuovo, un interesse per la semplificazione della forma che lo avrebbe portato, pochi anni dopo, verso l’Espressionismo e la svolta definitiva dell’astrazione.
Secondo gli studiosi, fu l’incontro con le geometrie perfette dell’arte islamica a spingerlo ad abbandonare il naturalismo e a esplorare un linguaggio visivo fatto di segni, colori e simboli.

"Arab City" di Vassily Kandinsky, 1905. Cortesia del Musée National d'Art Moderne, Centre Georges Pompidou, Parigi. Riproduzione fotografica fedele di un'opera d'arte bidimensionale di pubblico dominio. Fonte: Wikimedia Commons.

"Arabs (Cemetery)" di Vassily Kandinsky, 1909. Cortesia della Kunsthalle di Amburgo. Riproduzione fotografica fedele di un'opera d'arte bidimensionale di pubblico dominio. Fonte: Wikimedia Commons.
Per entrambi, il Nord Africa non fu solo una destinazione di viaggio, ma un luogo dell’anima, un’esperienza che trasformò il loro modo di vedere e di dipingere. I paesaggi reali lasciarono spazio a quelli interiori, e il colore divenne il vero protagonista delle loro opere.
Tappeti marocchini e design: l’architettura del XX secolo
All’inizio del Novecento, insomma, i tappeti berberi e la cultura marocchina hanno affascinato e ispirato molti artisti europei, influenzando profondamente l’arte astratta e il cubismo.
Abbiamo già parlato di Paul Klee e Vassily Kandinsky, ma non abbiamo ancora detto che entrambi furono anche insegnanti alla Bauhaus, la celebre scuola di arte, design e architettura attiva in Germania tra il 1919 e il 1933. La Bauhaus fu un vero laboratorio di innovazione, un punto di incontro tra artisti, architetti e designer di tutto il mondo, dove idee e sperimentazioni si mescolavano liberamente. Le teorie sviluppate in quegli anni avrebbero rivoluzionato non solo l’arte e l’architettura, ma anche il design industriale, la tipografia e persino l’artigianato, lasciando un segno indelebile sulla progettazione visiva e funzionale del XX secolo.
Il fondatore della scuola, Walter Gropius, fu una figura chiave del Movimento Moderno, insieme a Le Corbusier e Ludwig Mies van der Rohe. L’eredità della Bauhaus continua ancora oggi a influenzare architetti, designer e artisti di tutto il mondo. E proprio Le Corbusier, grande appassionato di tappeti berberi, li collezionava e li esponeva nella sua casa di Parigi. Ai suoi studenti dell'École des Beaux-Arts et d'Architecture insegnava un principio chiave:
"Fate come i Berberi, combinate la geometria con la fantasia più sfrenata."
Ma fu Alvar Aalto a rendere famoso uno dei tappeti più iconici. Anche lui, come molti dei suoi contemporanei, subì l’influenza della Bauhaus, in particolare di László Moholy-Nagy. Insieme a Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe, Walter Gropius e Frank Lloyd Wright, è considerato uno dei padri del Movimento Moderno.
Ecco, già ci stavamo facendo prendere dall’entusiasmo. Ora ne parliamo in modo più approfondito:
Tappeti famosi: quando Alvar Aalto fece conoscere al mondo i Beni Ourain
I tappeti marocchini probabilmente più famosi in assoluto sono i Beni Ourain: potreste non averne sentito il nome ma è quasi impossibile che non ne abbiate visto almeno uno in qualche foto di interni, soprattutto se in stile scandivano: questo tipo di tappeto a rombi bianco e nero a pelo lungo spopola anche nelle case delle influencer ed è stato fotografato praticamente ovunque.
Ma all'inizio del XX secolo, Alvar Aalto fu tra i primi architetti modernisti a incorporare i tappeti Beni Ourain nei suoi interni.
Questi lussuosi tappeti di lana, con le loro trame spesse, aggiungevano calore e comfort, attenuando l’aspetto minimalista degli spazi modernisti tipici di quel periodo. La tecnica di tessitura grezza, i disegni geometrici astratti e i colori neutri dei tappeti si sposavano perfettamente con la filosofia del modernismo, che puntava a un'arte pura ed essenziale.
Uno dei più iconici Beni Ourain, con il suo disegno a rombi bianco e nero, spicca nelle immagini che ritraggono lo studio personale di Aalto, progettato nel 1955.

"Studio Aalto 2023" di Jonathan Platteau licenza CC BY-SA 4.0. Fonte: Wikimedia Commons
(se vi state chiedendo cosa ci facciano tanti sgabelli Ikea - nati nel 1980 - nello studio di Aalto, continuate a leggere!)
Ma la sua passione per i tappeti berberi iniziò qualche anno prima.
Hugo Alvar Henrik Aalto, architetto e designer finlandese, è stato una delle figure più influenti nel plasmare l’estetica del design nordico e scandinavo. Il suo approccio si fondava sul principio del Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale che prevedeva la progettazione completa di un ambiente: dall’edificio stesso agli arredi, passando per l'illuminazione e gli oggetti.
Nel 1935, insieme alla moglie Aino, Maire Gullichsen e Nils-Gustav Hahl, fondò la celebre azienda Artek (che nel 2025 celebra 90 anni), un laboratorio di design che si occupava di mobili, tessuti e oggetti in vetro. Aalto fu anche uno dei primi a usare il legno multistrato curvato, con il suo famoso sgabello impilabile, la poltrona e il carrellino portavivande in legno curvato che sono diventati icone di design riconosciute a livello mondiale.
Talmente famose da essere state poi abilmente imitate. Sì, quelli in foto sono gli sgabelli Artek, che Ikea ha poi - usando un eufemismo - reinterpretato trent’anni dopo. E la cosa assurda è che al pubblico sono più noti i secondi rispetto a quelli originali.
La storia dei tappeti berberi per Aalto iniziò nell'estate del 1935, durante un viaggio con Aino attraverso l'Europa per studiare le ultime tendenze in architettura e design. A Zurigo, Aino prese contatto con il negozio di design Wohnbedarf, che divenne una fonte di ispirazione fondamentale per Artek, grazie alla sua esposizione di tappeti berberi. La mostra North African Folk Art Exhibition di Wohnbedarf presentava tappeti Amazigh, prodotti da popolazioni Amazigh che utilizzavano tecniche di tessitura tradizionali: perfetti per l’estetica del design modernista e per l'evoluzione dell’architettura brutalista.

"The Aalto House, Helsinki" di Ninara licenza CC BY 2.0. Fonte: Flickr
Wohnbedarf e Artek condividevano lo stesso fornitore di tappeti in Marocco, e quei tessuti esposti a Zurigo influenzarono profondamente l'estetica e le scelte di prodotto di Artek. I tappeti berberi vennero così utilizzati non solo nell'abitazione privata degli Aalto, ma anche in progetti per clienti privati come la Villa Mairea e Villa Skeppet (qui sotto).

"Villa Mairea" di Andrew Carr licenza CC BY-NC-ND 2.0. L'immagine non ha subito modifiche. Fonte: Flickr

"Interiör från Villa Skeppet" di Göran Schildt. Cortesia della Società di Letteratura Svedese in Finlandia. Dominio pubblico licenza CC BY 4.0. Fonte: Wikimedia Commons
Nel 1936, Artek creò un “appartamento modello” a Helsinki, in Minervankatu, dove espose arredi e complementi a catalogo. In ogni stanza compariva almeno un tappeto di lana bianca a pelo lungo, con i caratteristici decori neri a rombi o zigzag.

"1936 Minervankatu model apartment exhibition, living room". Foto di Heinrich Iffland. Cortesia di Alvar Aalto Foundation. Licenza CC BY 4.0. Fonte: ResearchGate.
Nello stesso anno, Aalto e Artek organizzarono una mostra al negozio di Helsinki, che presentava una significativa selezione di tappeti Amazigh provenienti dal Marocco.
E, curiosità, sapete chi aveva progettato il negozio di Wohnbedarf? Marcel Breuer!
Marcel Breuer e la Sedia Africana
Creatore della poltroncina Wassily e della prima sedia cantilever Cesca in tubolare e rattan, Marcel Breuer ha avuto un rapporto particolare con il Marocco, un paese che visitò tra il 1932 e il 1935, e dove venne profondamente influenzato dalle tradizioni artistiche locali. Durante il suo soggiorno, Breuer ebbe modo di entrare in contatto con la cultura marocchina, esplorando la sua arte, la sua architettura e, soprattutto, i suoi tappeti. Questi ultimi, come per altri designer e architetti modernisti, rappresentavano un legame diretto con la semplicità, l’artigianalità e la geometria, che risuonavano perfettamente con le idee del Movimento Moderno e della Bauhaus.
Nel contesto del Marocco, Breuer non si limitò a raccogliere ispirazione per i suoi progetti, ma iniziò anche a incorporare elementi di quella cultura nelle sue creazioni. La sua esplorazione dei tappeti marocchini, per esempio, lo portò a considerare l’uso di tessuti e trame che potessero richiamare una visione più organica e naturale, capace di rispondere alle esigenze estetiche del design moderno.
Anche in relazione alla "Sedia Africana" progettata nel 1921 con Gunta Stölzl, Breuer manifestò un interesse crescente per le forme artistiche e le culture extraeuropee, tra cui l'Africa e il Nord Africa, come punto di riferimento. In questa sedia, l’uso di materiali naturali come il legno e il rattan evocava una connessione con pratiche tradizionali non occidentali, aprendo la strada a una nuova visione estetica che avrebbe incluso altre tradizioni culturali, come quella marocchina.
> Parliamo di Gunta Stölzl e delle donne della Bauhaus nel paragrafo: Focus | Donne e Bauhaus, quando la tessitura era l’unica forma di design concessa
Inoltre, Breuer fu tra gli architetti più importanti a sperimentare con il legame tra arte e architettura, portando nella progettazione degli interni e degli spazi architettonici un approccio integrato, come nel caso della casa progettata per Walter Gropius, dove il tappeto-arazzo sostituiva la tradizionale testiera del letto, un elemento che simboleggiava una fusione tra funzionalità e decorazione (in questo caso il tappeto non è marocchino ma ci sembra un ottimo spunto per l’utilizzo originale dei tappeti!).

"Gropius House Master Bedroom" di SHendry11, licenza CC BY-SA 4.0. Fonte: Wikimedia Commons
L’influenza del Marocco su Breuer non fu solo estetica, ma anche filosofica: la sua ricerca di una sintesi tra modernismo e tradizione, tra forme puriste e l’uso di materiali naturali, si avvicinò molto alla visione degli artigiani marocchini, che attraverso la tessitura dei tappeti e altri manufatti trasmettevano un forte legame con la natura, la geometria e la spiritualità. Questo interesse per la cultura marocchina fu un elemento che arricchì il percorso di Breuer, sia nel design che nell’architettura, dando vita a soluzioni innovative che ancora oggi vengono apprezzate per la loro eleganza e modernità.
Charles e Ray Eames, una casa da vivere e amare
L’estetica di Aalto ebbe un grande impatto sul lavoro dei designer industriali Charles Eames e Ray Kaiser, che, come i loro contemporanei, cercarono di creare un dialogo tra modernità e tradizione, funzionalità e bellezza.
Tra i più influenti designer del XX secolo, gli Eames furono capaci di rivoluzionare l’approccio al design e all’architettura, integrando l'innovazione con una forte attenzione all'arte e alla funzionalità. La loro partnership creativa si è estesa a numerosi campi, dalla progettazione di mobili iconici come la famosa sedia lounge Eames al design di interni, fotografia e persino film. Durante i loro viaggi, in particolare quello a Marrakesh negli anni '50, i coniugi Eames si lasciarono ispirare dalla cultura marocchina e, in particolare, dai tappeti berberi, che divennero un elemento ricorrente nei loro progetti di interni. I tappeti, con le loro trame geometriche e i colori intensi, si integravano perfettamente con l’estetica minimalista e funzionalista tipica del loro design, creando spazi eleganti e accoglienti. Questi tappeti non solo arricchivano le loro creazioni, ma riflettevano anche un interesse per la semplicità e l'artigianalità, temi cari ai coniugi Eames, che credevano nell’unione tra bellezza e funzionalità.
Uno degli esempi più noti di come i tappeti berberi vennero incorporati nei loro progetti è visibile nella casa che Charles e Ray Eames costruirono a Los Angeles - Pacific Palisades, in California. In questo ambiente, i tappeti berberi si mescolavano con i mobili in legno e acciaio, con un equilibrio perfetto tra materiali naturali e modernismo. L’uso dei tappeti dava calore a spazi minimalisti, creando un contrasto affascinante con le linee nette e pulite delle loro sedie e poltrone.

"Eames House" di Edward Stojakovic licenza CC BY 2.0. L'immagine non ha subito modifiche. Fonte: Flickr

"Eames House Living Room, 1949. Case Study House No. 8. LACMA" di Rob Corder licenza CC BY-NC 2.0. L'immagine non ha subito modifiche. Fonte: Flickr
La villa rappresenta appieno il loro approccio, con la sua struttura minimalista e allo stesso tempo accogliente, capace di riflettere un perfetto equilibrio tra modernismo e tocchi personali. Composta da due padiglioni rettangolari in vetro e acciaio, da una parte la zona residenziale, dall’altra lo studio e il laboratorio, è un perfetto mix tra minimalismo e massimalismo, creando un ambiente che trasmette modernità, spontaneità, ottimismo e un'apertura mentale che rende unica questa casa.
Le fotografie della villa ritraggono spesso i coniugi Eames seduti in soggiorno, sul pavimento, circondati da intricati tappeti marocchini dalle trame geometriche, tipici dei tappeti Beni Ourain. Questi tappeti, con il loro mix di rosso, nero e arancione, rappresentano un elemento di contrasto visivo rispetto agli altri arredi, eppure si integrano perfettamente nell'ambiente, arricchendo lo spazio con la loro energia e la loro storia. Il salotto è una vera e propria espressione di un’estetica eclettica (che potremmo definire anche un po’ boho), dove gli arredi e gli accessori si mescolano con naturalezza e personalità. Ogni elemento racconta una storia, e insieme creano un’atmosfera che non può essere etichettata in modo semplice: non è solo stile americano, europeo, scandinavo, industriale o giapponese, ma un insieme di tutte queste influenze, che si fondono in un mix unico.
In questa villa, Charles e Ray Eames misero tutta la loro personalità, curando ogni dettaglio con amore. Non mancano pezzi pronti all'uso (ready-made), oggetti artigianali, regali di amici, familiari e colleghi. La casa è la loro dichiarazione di stile, un manifesto visivo che spinge oltre i confini del design convenzionale, e che non esita a combinare l’alto e il basso, il moderno e il tradizionale, in un gioco armonico di contrasti che rende ogni angolo sorprendente. E, in questo contesto, i tappeti marocchini non sono semplicemente decorazioni, ma simboli di una ricerca di autenticità, artigianalità e di una fusione perfetta tra il globale e il locale.
Nel 1957, i coniugi Eames iniziarono una collaborazione con Vitra, azienda che ha poi continuato a produrre e diffondere le loro opere in tutto il mondo, facendo conoscere a milioni di persone il loro approccio innovativo al design.
«The details are not the details. They make the product. It will in the end be these details that give the product its life.» Charles & Ray Eames
Frank Lloyd Wright e i tappeti della villa più famosa al mondo: la Casa sulla Cascata
Frank Lloyd Wright è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi architetti del XX secolo. La sua filosofia progettuale, definita "architettura organica", mirava a creare edifici che si integrassero perfettamente con l’ambiente circostante, fondendo natura, materiali e spazi abitativi in un equilibrio armonico. Questa visione trova la sua massima espressione in una delle sue opere più celebri: la Casa sulla Cascata (Fallingwater), progettata nel 1935 per Edgar J. Kaufmann, un imprenditore di Pittsburgh.
L’abitazione, incastonata nella roccia sopra una cascata, è un capolavoro di leggerezza e solidità, dove ogni elemento—dal cemento alle travi in acciaio, fino ai rivestimenti in pietra locale—contribuisce a creare un ambiente in perfetta sintonia con il paesaggio. Gli interni seguono la stessa logica: mobili integrati, vetrate continue che dissolvono il confine tra interno ed esterno e una palette cromatica ispirata ai toni della natura.

"Fallingwater, Pennsylvania" di Euelbenul, licenza CC BY-SA 4.0. Fonte: Wikimedia Commons
Nonostante oggi centinaia di visitatori calpestino i suoi ambienti ogni giorno, la Casa sulla Cascata mantiene ancora un fascino vissuto, come se fosse pronta ad accogliere, da un momento all’altro, i suoi proprietari originali. Anche se ai turisti è proibito sedersi, i cuscini dei divani realizzati su misura da Wright sono ancora rivestiti con lo stesso tessuto beige riccamente intrecciato di un tempo, e i pavimenti in pietra dell’ampio soggiorno-sala da pranzo sono decorati con tappeti berberi dalle tonalità calde.
Deve sembrare una casa, non un museo di stato.
Questa scelta non è casuale. Wright attribuiva grande importanza ai materiali naturali e alla loro capacità di trasmettere calore e autenticità. Il figlio del committente, Edgar Jr., desiderava che la casa conservasse questa atmosfera accogliente, come spiega la curatrice capo Lynda Waggoner: "Deve sembrare una casa, non un museo di stato."
Ed è proprio questa attenzione ai dettagli, dai tappeti marocchini alla disposizione degli arredi, a rendere la Casa sulla Cascata ancora oggi un simbolo senza tempo di equilibrio tra design e natura.

"Fallingwater" di Sakul9, licenza CC BY-SA 4.0. Nessuna modifica apportata. Fonte: Wikimedia Commons

"Fallingwater - obývací pokoj včetně původního vybavení" di Sakul9, licenza CC BY-SA 4.0. Nessuna modifica apportata. Fonte: Wikimedia Commons
Focus | Donne e Bauhaus, quando la tessitura era l’unica forma di design concessa
Negli anni ’20 e ’30 il mondo attraversò profondi cambiamenti sociali e culturali, e la condizione femminile, soprattutto nei paesi occidentali, subì trasformazioni significative. Il movimento per i diritti delle donne guadagnava terreno: si lottava per il diritto di voto, per un maggiore accesso al lavoro e per nuove libertà sociali. La figura della "flapper" divenne emblema di modernità e ribellione, ma nella realtà il modello tradizionale di donna continuava a dominare.
Il rapporto tra le donne e la Bauhaus fu particolarmente controverso, come spesso accadde con molte forme d’arte ed espressione. Nonostante il grande numero di richieste di ammissione da parte di studentesse, l’accesso era fortemente limitato. E anche per le poche che venivano accettate, le possibilità erano ristrette: non potevano frequentare i corsi di architettura, pittura o design, ma venivano indirizzate esclusivamente ai laboratori di tessitura, ceramica e rilegatura di libri.

"Webereiklasse Webmeister Kurt Wanke, Bauhaus Dessau" di Walter Gropius, circa 1928. Cortesia dell'Archivio Bauhaus, Berlino. Dominio pubblico. Fonte: Wikimedia Commons
Ma, come spesso accade, la determinazione e la creatività delle donne trovano sempre il modo di emergere! Quelle limitazioni si trasformarono in opportunità, e le influenze artistiche della Bauhaus presero vita attraverso tessuti e arazzi che, a uno sguardo attento, rivelano sorprendenti affinità con i tappeti berberi moderni.
Il lavoro di Gunta Stölzl, in particolare, richiama immediatamente gli Azilal, i Zindekh e i Boucherouite:

"Tapiseria stworzona przez Guntę Stölzl w latach 1927-1928" di Jennifer Mei. Licenza CC BY 2.0. Fonte: Wikimedia Commons
Come non ritrovare le stuoie Hassira in questa straordinaria opera in cotone, lino, rafia e filo d'argento di Anni Albers, che in foto ammiriamo esposta alla Tate Modern?
Alla Bauhaus, Anni imparò da Paul Klee le possibilità espressive date da una griglia, e nei tessuti delle antiche culture riconobbe un potente linguaggio visivo. Albers sviluppò allora le "tessiture pittoriche" elevando il tessuto a pura estetica. Il suo memoriale dell'Olocausto "Sei preghiere", commissionato nel 1965 dal Jewish Museum di New York, offre allo spettatore un'opportunità di contemplazione e riflessione privata.

"Six prayers" (The Anni Albers show at Tate Modern is astonishing, di Steve Bowbrick), licenza CC BY-SA 2.0. Fonte: Wikimedia Commons.
E che dire di questi design a righe ultra contemporanei?

"Anni Albers (1899–1994) Design for a Silk Tapestry 1926" di Art is a word. Fonte: Flickr, opera di pubblico dominio.
Yves Saint Laurent: atmosfere coloniali e stile moresco
Yves Saint Laurent e il Marocco: una storia d’amore a colori. Lo stilista francese, genio assoluto dell’alta moda, trovò a Marrakech una seconda casa, un rifugio creativo e un’inesauribile fonte di ispirazione. Il suo legame con il paese nordafricano fu così intenso da influenzare non solo le sue collezioni, ma anche il suo stile di vita e il modo in cui concepiva gli spazi abitativi. Ecco come lo raccontava lui stesso:
"Quando ho scoperto il Marocco, mi resi conto che la gamma dei colori che usavo era quella delle zelliges, dei zouac, delle djellaba e dei caftani. Da allora devo le mie scelte audaci nel mio lavoro a questo Paese, alle sue armonie potenti, alle sue combinazioni ardite, all'ardore della sua creatività. Questa cultura è diventata la mia, ma non l'ho solo assorbita: l'ho annessa, trasformata, adattata."
E in effetti, chiunque abbia avuto il piacere di passeggiare nei suoi riad e nelle sue ville di Marrakech avrà notato quanto il suo amore per l’arte moresca e lo stile francese si sia fuso in un mix sofisticato e sensuale. Un universo fatto di archi a ferro di cavallo, cortili ombreggiati, mosaici dai colori accesi, lanterne intagliate e tappeti marocchini dalle texture morbide e avvolgenti.
Parlando di tappeti: pensate forse che YSL si sia limitato a decorare i pavimenti con anonimi tessuti industriali? Assolutamente no! Gli interni delle sue residenze erano un tripudio di kilim berberi, tappeti Beni Ourain dalla lana soffice e pezzi unici tessuti a mano dalle tribù dell’Atlante. Il tutto disposto con quella maestria che trasforma uno spazio in una vera esperienza estetica.
Ma se Saint Laurent e il suo compagno Pierre Bergé avevano una visione, a dare forma concreta ai loro sogni ci pensò un uomo: Bill Willis, l'interior designer americano che rivoluzionò il modo di arredare le dimore del jet set internazionale. A lui fu affidata sia villa Dar Es Saada, acquistata nel '74 e ribattezzata “la casa della felicità e della serenità”, sia Villa Oasis, dimora in stile moresco dipinta di Blu che Saint Laurent e Bergé acquisirono nel 1980 - prima appartenente a Majorelle, che vi realizzò i lussureggianti giardini di cui abbiamo parlato poco più sopra.
Willis reinterpretò il cosiddetto "stile marocchino", aggiornandolo con un tocco contemporaneo e fondendolo con l’eleganza dello stile francese. Suo è il merito di aver riscoperto e rilanciato dettagli decorativi come gli stucchi scolpiti, le fontane in mosaico e, ovviamente, i magnifici tappeti berberi che oggi associamo all’estetica marocchina più raffinata.
E allora, se mai vi troverete a camminare tra le stradine dell’iconico Jardin Majorelle o tra le stanze della Villa Oasis, fermatevi un momento ad ammirare i tappeti sotto i vostri piedi. Dietro ogni nodo e ogni motivo geometrico si nasconde un racconto, fatto di cultura, tradizione e un pizzico di quel genio creativo che ha reso immortale Yves Saint Laurent.
Ps: Oggi Villa Oasis è di proprietà della Fondation Jardin Majorelle e ospita al piano terra il Museo delle arti berbere ed islamiche, museo che espone una collezione donata da Bergé, grande cultore e conoscitore dell’arte marocchina e del patrimonio culturale locale.
Concludendo
Bauhaus, razionalismo, modernismo, brutalismo: queste correnti hanno segnato la storia e continuano ad influenzare architetti, interior designer e designer di tutto il mondo. Mid century design, stile scandinavo e nordico, stile industriale, si ispirano e attingono a piene mani da questi illustri predecessori.
E siamo felici di poter dire che i tappeti marocchini hanno giocato un ruolo fondamentale nel definire gli stilemi. Ma anche nell’ammorbidire e umanizzare i tratti e i materiali spesso molto scarni e geometrici. E così, l’abbinamento tappeto morbido, legno e cemento sono diventati un must have per la casa contemporanea.